La differenza salariale fra maschi e femmine è ancora molto forte in gran parte del mondo. Ma in Italia le cose vanno anche peggio
di Adriana Dochie (Siena)
Sin dalla fine della Seconda guerra mondiale, le donne di tutto il mondo hanno cominciato a inserirsi nel mondo del lavoro, lottando per acquisire il diritto di voto e di istruzione.
Ad oggi il mondo femminile ha posto le sue radici nella società, riscoprendo una vasta pluralità di ruoli: quello di madri di casa, studentesse, cittadine e lavoratrici.
Questo contributo, sebbene al pari di quello degli uomini, ha sempre faticato a raggiungere lo stesso riconoscimento e la stessa validazione a causa di una mentalità patriarcale e capitalista fortemente radicate volte a considerare come unico parametro di importanza la forza lavoro.
Nel 2022 il tasso di occupazione femminile delle donne in una fascia d’età compresa tra i 20 e i 64 anni ricopriva il 55% degli impieghi in Italia, inferiore rispetto a quella europea del 64.9%. Quindi l’inclusione femminile in campo lavorativo ha subito un’enorme evoluzione rispetto ad una manciata di decenni prima, ma ciò non risparmia ancora ad oggi le lavoratrici dall’essere vittime di discriminazioni sul campo, di natura finanziaria o meno.
Il compenso monetario delle donne in Italia può differenziarsi da quello di un uomo di una cifra compresa tra i 3.000 e i 16.000 euro a seconda dell’inquadramento professionale. Il divario, soggetto a fluttuazioni dal 2017 al 2022, si è infine assicurato la solida percentuale del 10,7% a fine 2023. I numeri parlano da soli, dando una precisa definizione a quello che viene definito gender pay gap, ovvero la differenza di salario annuale medio percepito dalle donne rispetto a quello retribuito agli uomini.
Il fenomeno si presenta sempre più impetuoso a seconda del prestigio della posizione lavorativa rivestita, allargando il crepuscolo di genere in ruoli di direzione e management. Solo il 17.4% delle donne con titoli aziendali è CEO, ossia circa 23 donne per regione. Lo svantaggio maggiore cade sulle spalle delle manager: solo il 25% dei manager è donna e guadagnano all’ora fino al 23% in meno rispetto ad uomo.
L’ambito economico non è l’unico flagello di cui le figure femminili si devono preoccupare durante la ricerca dell’occupazione: fattori etici, spesso riguardanti periodi di gravidanza e figli, influiscono negativamente sulle probabilità che ad una donna venga concesso un lavoro a contratto indeterminato. La domanda “Lei ha intenzione di avere dei figli?”, è stata posta a 4 donne su 10 secondo il sondaggio “People management”, sebbene perseguibile per legge dal “Codice delle pari opportunità” che dichiara illegale attuare la selezione del personale in base genere, stato matrimoniale e orientamento sessuale.
Altro fattore portante è il fenomeno della delocalizzazione, cioè del trasferimento produttivo da parte di aziende transnazionali e multinazionali in una sede diversa da quella d’origine. Questo spostamento, che avviene soprattutto in zone in via di sviluppo come Africa e Asia, influenza enormemente il quadro economico dei paesi destinatari.
Al posto di offrire nuove opportunità lavorative, la delocalizzazione basa la propria attività sullo sfruttamento, alla ricerca di un profitto non raggiungibile pagando dignitosamente i propri dipendenti. Privati di ogni tutela contrattuale e legislativa sono spesso donne e bambini le figure lavorative che corrono maggior rischio di sfruttamento e schiavitù perché ancora considerati “la fascia debole” e di conseguenza la più facile da sottomettere.
In conclusione, è possibile constatare con sicurezza la presente discriminazione rivolta dalla società moderna nei confronti di donne in tutto il mondo, soprattutto nel campo di mestieri e retribuzione.
Fonti:
Camera di commercio dell’Umbria
Editing a cura di Fabio Cutrupi
L'autrice / autore
Sono arrivata in Italia a 9 anni, ho origini rumene. La mia passione è la scrittura e mi sto addentrando in vari generi. Mi piace molto leggere e parlo 3 lingue, far cui l’inglese